Davide Dotti
da Frammenti di realtà vissuta, Acquarelli di viaggio e suggestioni visive, Bologna 2009
[...] Perché fin dal primo incontro gli acquarelli di Giorgio Maria Griffa mi hanno affascinato ed ho percepito quasi fisicamente la grande dedizione, l’impegno e la fatica dell’artista nel realizzarli. Oltre all’aspetto meramente pratico di ottenere con la tecnica artistica dell’acquarello, tra le più difficili e per antonomasia fatta di velature e di getto, un realismo epidermico e lenticolare in taluni casi davvero impressionante che solo decenni di costante pratica consentono di raggiungere, bisogna tenere presente che le opere di Griffa sono acquarelli di viaggio, impressioni ed emozioni visive che l’artista fissa lucidamente sul foglio di carta accuratamente selezionato dopo vere e proprie spedizioni esplorative, lunghe anche mesi, che lo hanno condotto dall’estremo Nord all’estremo Sud del globo, dall’Isola di Terranova fino all’Antartide, forse alla ricerca di se stesso. Sono istantanee dal taglio visivo assai singolare e variabile, alle volte ravvicinato e alle volte di sbieco, a seconda che l’enfasi sia posta su un particolare o su una veduta dilatata, nelle quali si percepisce in sottofondo un sottile rapporto che le lega, di volta in volta, con i maestri del passato.
Chiara Gatti
da Giorgio Maria Griffa, pittore per nostalgia, KOS, Rivista di medicina, cultura e scienze umane, n° 251/252 Agosto-Settembre 2006
[...] Le sue carte parlano da sole. Dagli scorci di una natura selvaggia agli angoli di una città semi-deserta, lo sguardo dell’artista non cambia. Descrive luoghi suggestivi e paesaggi irreali con il desiderio di raccontare l’uomo attraverso le tracce che ha lasciato di sé e del proprio passaggio. Per quanto prive di qualsiasi accenno alla figura umana, le immagini di Griffa non potrebbero essere, in questo senso, più zeppe di vita. Il suo vagare alla ricerca di terre incontaminate, fuori del mondo corrisponde in realtà a una esasperata ricerca dell’uomo.
Il relitto era quello del Duchess of Albany di Liverpool, naufragato, a causa di una nebbia spessa come il cotone, nel 1893, nelle acque della Caleta Policarpo (come si legge nel rapporto della Gazzetta Navale) e fotografata, quarant’anni più tardi, dal geografo ed esploratore biellese Alberto Maria De Agostini. Stregato dalla vista di quegli scatti, che mostravano la nave ancora in buono stato, Griffa ha voluto ri-calcare le orme del geografo, per aggiungere il Duchess alla sua collezione di relitti. Rottami dai nomi favolosi: Ambassador, Lord Lonsdale, Desdemona, Amadeo. Scheletri arrugginiti ma animati da volteggi di scotte e sartie spezzate, che la povera "duchessa", torturata dalle burrasche, aveva già regalato al mare, restando completamente nuda. Narratore di viaggi e avventure, Griffa non poteva mancare all’appuntamento col suo scafo, sdraiato su una lingua di spiaggia sassosa, circondato da tronchi ben levigati e, a tratti,inghiottito dall’alta marea.
Dario Olivero
da Tutti i fari degli Stevenson negli acquarelli di Griffa, Repubblica.it, 7 maggio 2005
Un bel giorno un pittore italiano che si chiama Giorgio Maria Griffa è partito con pennelli e acquarelli ed è andato a vedere i fari costruiti dagli Stevenson. Li ha dipinti uno a uno e li ha consegnati a Nuages, una casa editrice specializzata in arte contemporanea.
Ne è uscito un volume struggente dal titolo I Fari degli Stevenson (40 euro), uno dei tesori nascosti tra gli stand della Fiera del libro. Ogni faro, un dipinto, una scheda con latitudine e longitudine, altezza, struttura, lampi al secondo. Ogni scheda, uno Stevenson. Robert, Alan, David, Thomas, Charles.
Massimo Guastella
da Giorgio Maria Griffa. Isole, R&R Editrice, Matera 2004
[...] Nella sua duplice vocazione di viaggiatore e artista la sua opera procede come il diario di bordo di una rotta perpetua, ma di un moto particolare affinché ogni immagine possa ricollegarsi ad un'altra, senza l'obbligatorietà dei nessi, delle analogie, sprovvista di vincolanti direttrici spazio-temporali. La realtà per Griffa è fatta di frammenti, brani, parti, pezzi, nuclei, cellule del tessuto planetario.
"Faccio vedere - lui ci spiega - pezzi di isole o isole a pezzi". Ecco dunque la sua è una geografia di frammenti isolati, che trovano comune attinenza nell'essere semplici appunti mnemonici di ciò che lui ha conosciuto, prendendone coscienza.
Martina Corgnati
da Giorgio Maria Griffa. Paesaggi nel cuore della memoria, Ed. Galleria Marieschi, Milano 2001
[...] Cosa cerca Griffa in questi dettagli di paesaggio che spesso confinano con la desolazione o con la banalità, attraverso questi punti di vista strani e sperduti, da cui spesso si può mettere a fuoco soltanto un tank abbandonato, un portico sdrucito, un cavo dell'alta tensione sospeso o una vecchia imbarcazione semisepolta dalla neve e da una neve di quelle che sembrano non doversi sciogliere mai?
Cerca spazi abbastanza vuoti perché possano contenere tutta la densità della sua visione, tutta l'immensa memoria delle cose viste, accumulate, stratificate insieme nel fondo degli occhi; cose che non importa da quali storie provengano e quali origini abbiano, ma cose che sono ancora lì (questo è l'unico fatto), sprofondate nel cuore della memoria che crea il senso del presente.
Questo implicito 'passato' dell'immagine che condiziona soggetti, tagli, inquadrature e scelte compositive è il fondamento dello stile di Griffa; cronaca di viaggio, in superficie, fedelissimo reportage di un vissuto in terre lontane (o vicine: qualche volta infatti l'attenzione si concentra su un particolare scoperto nei pressi di casa, in terra biellese; come per esempio sulla facciata di una chiesa colta però di scorcio e come sospesa incongruamente sul pieno della parete), ma in realtà reportage traviato, assemblato e composto nel corso di una vita intera combinando insieme suggestioni letterarie, ricordi cinematografici, voglia o necessità insistente di riscoprire, di approfondire, di tornare sui propri passi andando sempre in luoghi diversi.
Giorgio Soavi
da Acquarelli di Viaggio, Edizioni Nuages, Milano 1999
[...] E per chi ha un briciolo di immaginazione può anche bastare fermarsi inquietamente davanti a un relitto posato sulla spiaggia o appena sommerso dall’acqua del mare per avvertire che la linea d’ombra sta per essere sfiorata, sta appena al di là dello sguardo. Non sembra inghiottirlo con la sua presenza, tanto desiderata, ma può diventare inquietante come un film giallo perché la presenza di quell’eroe, che per Griffa è il relitto, può diventare, di colpo, una trappola. La sensazione di stare all’ingresso di un mistero viene guardando questi relitti di navi o di barche disegnate da chi vorrei chiamare, con buona approssimazione, il maestro dei relitti.
Griffa è un viaggiatore testardo e molto accurato, è un progettista ambizioso. Come Stevenson, come Conrad, ha ammirato quel che resta di un naufragio e i relitti sono per lui la sua cartà d’identità. Adesso che lui li ha scoperti e portati alla luce, quei relitti sono diventati emblemi indimenticabili. Fanno parte della sua dinastia. E hanno dati anagrafici ben precisi. Griffa ha viaggiato in Terra del Fuoco, guardato la forma di un faro come un ragazzino guarda, pallido per l’emozione, i primi francobolli di uffici postali molto lontani da casa.
Franco Fanelli
da Giorgio Maria Griffa. Dal Labrador alla Terra del Fuoco, Ed. Galleria Marieschi, Milano 2002
[...] L’enciclopedista-viaggiatore nutre la sua ossessione, ma anche la sua probità catalogatoria, con la diuturna descrizione di ogni ossidazione che corrompe la chiglia di navi alla deriva in un infinito Mar dei Sargassi, ogni calcinazione che brucia le lastre tombali di cimiteri patagonici, tutte le fessurazioni che insidiano l’assito di una casa nel Maine. Il pittore rinuncia alla fascinazione della dimensione favolosa del viaggio: sotto luci impassibili non si muove nulla di vivo; spesso appare ciò che della vita è stato albergo.
Le stesse balene cantate da Melville e Coloane appaiono, nelle opere di Griffa, esclusivamente nel guscio della citazione, fossili istoriati negli inchiostri delle stampe popolari americane o delle xilografie giapponesi (perché i mari dove nuota il capodoglio uniscono territori e culture agli antipodi, finendo per far combaciare l’estremo occidente con il remoto oriente).
E di Melville, a Griffa, deve interessare soprattutto la descrizione dell’alfabeto di centenarie cicatrici (memorie, appunto) che solcano la fronte mortifera del Leviatano, oppure l’attenta narrazione dei simboli sullo scudo che fa da polena alla nave di Benito Cereno. Griffa trascrive quegli alfabeti (ad altri affidandone la decrittazione) che sul guscio esausto di una scialuppa, sulla valva essiccata di un mollusco, narrano di eventi, di mari e di altre vite.
Giorgio Maria Griffa in conversazione con Michele Porcu
da Abitare n° 407, giugno 2001
M.P. Nell'introduzione al tuo libro Acquarelli di Viaggio riporti una bellissima frase — "Leggere un libro, signore, mi spinse al largo" — che contiene un'apertura dello spirito che dischiude i confini non solo mentali. Eppure ami i relitti, arenati e abbandonati, che hanno solo la memoria melanconica del navigare.
G.M.G. Mi tocca, ahimè, rifilarti subito un amuse-bouche su Schopenhauer e sul suo viaggio marino, metafora della battaglia per l'esistenza con annesso scacco finale: la vita come un mare irto di scogli che l'uomo tenta di fuggire, pur sapendo che, "quand'anche egli riesca, con ogni sforzo e arte di scamparne, perciò appunto si accosta con ogni suo passo, e anzi vi drizza in linea retta il timone, al totale, inevitabile naufragio: alla morte".
È sempre la stessa paura a paralizzare ogni gesto libero, a rendere di segno negativo la felicità, ogni scoperta, ogni nuova cosa, conducendo solo a nuove nostalgie. Alcuni libri spingono al largo, altri a fondo.
M.P. E scrivere un libro, dove può spingere?
G.M.G. Non so. Ho sempre desiderato farlo. Anch'io ho dei libri nel cassetto: tutti ne hanno ma sfortunatamente la maggior parte li pubblica. Così resto ai primi danni.
M.P. Dettagli. C'è piacere e precisione nel raccontare, attraverso linee, punti, graffi, ombre, e anche parole, quello che hai visto e riportato a casa dopo ogni viaggio. Ogni particolare rientra in una vista complessiva, contestualizzata e spesso a grandangolo. Anche i rari zoom — che nascondono visioni di territori — sembrano un pretesto diverso per raccontare i tuoi temi: il resto, la desolazione, la (ri)conquista, il silenzio, la forza delle cose abbandonate dall'uomo che, con dignità, resistono alla durezza e violenza della natura.
G.M.G. Non amo troppo la "natura morta", preferisco senz'altro la natura morta.
M.P. Quella viva è nell'atomo?
G.M.G. No, accidenti! Ma l'atomo è così rassicurante e maneggevole...
Siamo sempre lì: sconfinate praterie ci circondano ma noi continuiamo a zappettare il nostro campicello di fidate piccole nevrosi.
M.P. Sei un legionario? Potresti viaggiare su commissione?
G.M.G. Dipende dai trofei che si possono riportare. Che, chiariamo subito, sono cosa diversa dalla paga del soldato.
M.P. Colori. Bianchi e ocra, bruciati, qualche raro cielo azzurro e infinite tonalità di grigio. Ami il bianco e nero?
G.M.G. A me, come definizione della vita, questa sintesi sembra impeccabile.
M.P. Alcuni lavori sono più "spensierati": copie di biglietti o di vassoi d'aereo o di scatole di pellicole fotografiche. Sembra presente una vena "pop". Vuoi così ricollocare il viaggiatore senza mai farlo vedere? O sono un diversivo?
G.M.G. Gli oggetti in cui si imbatte il viaggiatore, in cui inciampa, che usa, che butta, da cui cerca di liberarsi, che dimentica, che invece non deve dimenticare, che interagiscono, sarebbero tema, da soli, per più di una mostra.
M.P. Forse mobile, autogenerativa...
Tornando ai paesaggi, c'è quasi sempre un segno dell'uomo, relitti di navi, case, fari, treni in corsa nel deserto della Patagonia — ma non compare quasi mai una presenza umana o animale. Come se tu volessi scoprire da solo luoghi mai visti, ma che in realtà sono sempre costruiti, e talvolta abitati, dall'uomo.
G.M.G. Ci sono uomini no limits che, sponsorizzati, si tuffano dentro vulcani in eruzione o saltano a piedi uniti fino alla luna, e altri che sono costretti a imbattersi, di tanto in tanto, in orme di qualche "Venerdì" sparso per il pianeta. Durante un viaggio con due di questi "Venerdì", Santana e Ramon, in Terra del Fuoco, ci imbattiamo, nel bel mezzo del nulla, in un pinguino. In questo periodo, dice Santana, se ne stanno da soli. È ridotto come una pelliccia messa in lavatrice, immobile nel vento. La sera ho scritto sul mio taccuino: "Il piccolo pinguino non può rendere meglio la meravigliosa solitudine di queste terre. La sua vita cambia le piume, un fatto poco spettacolare, privato, naturale. Che solo per caso abbiamo notato. La natura, lontano dagli uomini, prosegue in modo religioso. Quando ne siamo testimoni, l'abbiamo già violata.
M.P. Il taccuino di viaggio è oggetto personale, emotivo, sintetico, con appunti e disegni che poi riconverti al tavolo. Quanto conta la memoria nella rielaborazione? Forse dipingi per non dimenticare...
G.M.G. Non voglio dimenticare.
M.P. Il prossimo viaggio?
G.M.G. Relitti in Sud Africa o paesaggi delle Ebridi Esterne. Bello no, quell'"Esterne"?